In una recente sentenza (la n. 14862 del 15 giugno 2017) la Cassazione ribadisce alcuni principi che toccano, trasversalmente, gli articoli 4 e 7 della L. 300/70, nonché le indicazioni del Garante per la privacy sulla tutela dei dati personali, aspetti che rendono il  suo commento particolarmente interessante.

Nello specifico la Suprema Corte legittima il comportamento del datore di lavoro che intima il licenziamento, per giustificato motivo soggettivo, al proprio dipendente che utilizzava reiteratamente la rete internet aziendale per finalità personali, con il pc ricevuto in dotazione.

A nulla sono valsi i rilievi con cui la controparte ha evidenziato la mancata affissione del codice disciplinare, in quanto la nullità del provvedimento disciplinare per mancata affissione non riguarda i casi in cui si ravvisi una inosservanza degli elementari obblighi di fedeltà e diligenza previsti dagli artt. 2104 e 2105 cc. o di norme penali. Per i giudici le violazioni relative alle normali regole del vivere comune sono note a tutti e, quindi, non sono soggette agli obblighi di pubblicità che si rendono, invece, indispensabili per altri tipi di condotte allo scopo di rendere edotti i lavoratori circa gli ulteriori comportamenti vietati e sanzionabili disciplinarmente.

Stessa sorte hanno avuto le eccezioni con le quali si eccepiva il tardivo recepimento del provvedimento espulsivo rispetto alle tempistiche stabilite nel CCNL: per la Corte fa fede la data dell’invio e non quella del ricevimento del provvedimento espulsivo.

Per quanto riguarda, invece, il rispetto delle disposizioni sul controllo a distanza del lavoratore, la Cassazione ritiene che, esaminare i dati del traffico internet del  dipendente, sul pc assegnato in dotazione (senza scendere nel dettaglio sui siti visitati e tantomeno sulla tipologia di dati stessi) rappresenti un comportamento che non viola l’art 4 dello Statuto dei lavoratori. Il controllo, infatti, non ha avuto per oggetto l’esatto adempimento della prestazione, ma è stato rivolto a valutare l’esistenza di un comportamento illecito del dipendente in grado di ledere il regolare funzionamento aziendale.

Da ultimo, ma non per importanza, la Corte esamina gli aspetti connessi alla protezione dei dati personali. Nella lettera che avvia il procedimento disciplinare il riferimento è esclusivamente al volume dei dati scaricati, nonché alla data e all’ora della connessione. L’assenza di violazione delle norme sulla privacy deriva dal fatto che l’azienda non ha analizzato i siti visitati, non ha esaminato la tipologia di dati, né li ha salvati sulla propria strumentazione. I dati erano semplicemente di natura quantitativa (n. di connessioni e durata dell’accesso) e quindi non in grado di produrre informazioni riferibili alla persona, come le tendenze religiose politiche o sessuali.

La sentenza commentata è utile per capire come la giurisprudenza approccia ad alcuni temi, ma è sempre preferibile, per il datore di lavoro, rendere inattaccabile il proprio operato riassumendo tutte le condotte sanzionabili, anche quelle tipizzate dal CCNL, in un documento: il Codice Disciplinare. Essendo un “vestito” ritagliato ad hoc per la propria azienda, risulta molto più utile rispetto alla semplice affissione del paragrafo “Provvedimenti disciplinari” contenuta nel CCNL ed, inoltre, consente di riepilogare in un unico atto tutte le norme comportamentali a cui i lavoratori debbono attenersi.

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